L’etichetta “Vita Indipendente” è stata molto fortunata, in quanto ognuno intuisce ciò di cui si parla: una filosofia che tende a considerare un disabile non oggetto di cure, ma soggetto che può legittimamente aspirare a una propria indipendenza dai famigliari. Ma proprio per questo si è portati a non considerare il livello squisitamente tecnico.
L’originaria espressione inglese è Indipendent Living, con il termine Living che è il presente progressivo del verbo To Live (vivere). Quindi si potrebbe tradurre piuttosto come “vivendo [in modo] indipendente”.
Quindi il senso di Indipedent Living è, a parer mio, più esteso di quanto sia quello di Vita Indipendente. Perché una persona, che ha obiettive difficoltà di movimento, viva in modo indipendente, sono necessarie molte cose: qualcuno che l’assista nelle attività quotidiane, autobus e altri mezzi che gli consentano di muoversi agevolmente, una casa funzionale alle sue necessità. Necessita soprattutto di una nuova mentalità, sia da parte sua che da parte degli altri.
L’Assistenza personale autogestita, quindi, è solo un aspetto; tuttavia è il principale: qualcuno che possa aiutare il disabile nella sua quotidianità, in ciò che lui non riesce a fare, è la condizione minima. Poi, ovviamente, servono altre cose: la domotica, come detto, l’abbattimento di barriere, non solo architettoniche, mezzi di trasporto idonei.
Immagino a questo punto i due tipi di obiezioni: l’assistente dev’essere un esperto della disabilità di chi va ad assistere. A questo punto chi meglio di un infermiere, o un operatore sociale in una struttura semiresidenziale? E ancora: se davvero non piacciono le strutture semiresidenziali ok, ma perché chiedere a uno sconosciuto di assisterti quando lo può benissimo fare un tuo famigliare? Chi ti conosce meglio di tua madre, tuo fratello o tua sorella?
Dunque, andiamo per ordine. Uno che voglia fare vita indipendente si assume una responsabilità, esattamente come chiunque voglia andare a vivere da solo: quella di gestire la propria vita, facendo la spesa, pagando le bollette, facendo tutto ciò che deve per mantenere in efficienza la propria auto, assumersi impegni lavorativi, ecc. Anzi, nel caso della Vita Indipendente è anche peggio, perché sei parzialmente responsabile di un’altra persona (in qualità di datore di lavoro). Tutto questo è una sfida, ed è ciò che ti consente di diventare adulto. Potresti fare tutto questo in un istituto?
In quanto alla questione del famigliare, c’è da aggiungere qualcosa. Molti preferiscono l’assistenza di un famigliare, vero, e quindi è giusto tenerne conto. Di questo aspetto si occupa (o meglio, si occuperebbe) la legge del care giving. Tuttavia la filosofia della vita indipendente insiste su un punto: la libertà di scelta; e questa va in due sensi: non solo la libertà del disabile di condurre una vita autonoma, senza dover rendere conto a un famigliare, ma libertà anche dello stesso famigliare di avere una propria vita, senza doversi per forza occupare del famigliare disabile.
Il rapporto con un assistente, per quanto amichevole, è sempre un rapporto di lavoro: la sua vita non si esaurisce con l’assistenza, ma al di là di questa ha una sua famiglia, delle sue relazioni, dei suoi hobby. Al contrario, vi sono molte situazioni in cui un assistente è temporaneamente impossibilitato a svolgere il suo compito. In tal caso il disabile provvederà a cercare un sostituto fino a quando l’assistente non sarà in grado di riprendere il suo lavoro. Nel care giving l’assistente è sempre un famigliare, e questo limita molto la loro libertà di azione. Se genitore di un figlio disabile, ha un preciso obbligo di assistenza nei suoi confronti, se il disabile è il coniuge, invece, l’obbligo di assistenza dell’altro coniuge non si esaurisce col divorzio.
Ovviamente ci saranno sempre molti che ricorreranno al care giving, sia perché non si fidano di un operatore esterno, sia perché non hanno altra scelta, e ovviamente questa cosa è del tutto legittima; si tratta solamente di dare l’opportunità di scelta.