Innanzi tutto c’è da dire che in Italia, ad esclusione della 162 del 21 maggio 1998 che parla proprio della Vita Indipendente, manca una legge a livello nazionale; questa infatti non è altro che un’estensione della legge quadro 104 del 1992. Una seconda norma, anche questa una legge quadro, è la 328/2000 (della quale parlerò in uno dei prossimi articoli) e che all’articolo 14 comma 1 recita: «per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2». Per il resto la materia e regolamentata a livello regionale.
In conseguenza di ciò la situazione in Italia è piuttosto variegata: se nel Veneto la Vita Indipendente è una realtà ormai consolidata, altre regioni ricorrono ad altre modalità assistenziali. In Emilia Romagna l’assistenza si eroga attraverso l’uso di assegni di cura, le Marche, pur riconoscendo la necessità di integrazione scolastica e sociale (e ha improntato la sua legislazione regionale a questo) è orientata verso l’assistenza domiciliare (oltretutto progetti di Vita Indipendente ci sono ma come sperimentazioni a livello comunale). l’Abruzzo ha una propria legge dedicata alla Vita Indipendente (L.R. 57/2012). Questo, ovviamente, è solo un esempio.
Certo non mancano leggi nazionali su diversi aspetti della questione: decreto nazionale per il sostegno all’inclusione attiva, fondo per la non autosufficienza (istituito con legge 296/2006), ma la sensazione è che si debba ancora fare molto perché venga totalmente accolta la Vita Indipendente.
Anche a livello culturale si tende a confondere questa con altre modalità di assistenza domiciliare, magari erogata attraverso cooperative.